Quant’è bella la leggerezza di un mondo distopico. Ci si può trovare sotto dittature tecnocratiche, dalla palette di colori che va dal nero al grigio scuro, ma niente toglierà mai ai personaggi, e ai registi che li formano, la possibilità di mettere qualche hit degli anni ‘80/’90 in sottofondo al grande capo che balla sulle sorti del popolo oppresso. Solito contrasto che però in un certo senso continua ad attirare. In questo caso è Chris Hemsworth che muove i primi passi, nelle vesti di uno scienziato non pazzo ma estremamente affascinante, persuasivo e perennemente contento. A capitanare il popolo è Miles Teller, apatico, non si sa se per la continua somministrazione di farmaci, come avviene per tutti i detenuti all’interno della prigione/centro sperimentale, o per il rimorso del passato. La grande struttura nemica è la Spiderhead, colei che dà il nome al film diretto da Joseph Kosinski, appena appena reduce di Top Gun: Maverick.
E che cosa vuole controllare questo mondo? Tramite un dispositivo innestato nella schiena dei protagonisti e collegato ad un’app per cellulari, si iniettano ai detenuti di questo carcere speciale una serie di farmaci atti a manipolare le emozioni umane, o almeno quelle che la penna di Rhett Rees e Paul Wernick ha ritenuto le principali: felicità, tristezza, amore e senso di verità. Quest’ultimo risulta il punto principale di un film che viaggia in superficie, nella misura in cui fa luce su ogni suo aspetto, lasciando poco all’introspezione. Un panottico, per restare in tema. E questo può essere interpretato in vari modi, vediamo nel dettaglio.
Il primo impatto
Dopo un primo esperimento, un font rosa destabilizzante e una ripresa aerea degna del film precedente del regista, entriamo nella Spiderhead, classico edificio dall’architettura post-moderna, grigia, spigolosa. Ci si aspetterebbe l’arrivo di una navicella da un momento all’altro e veder scendere da essa Master Chief, mentre invece è il professor Abnesti (Chirs Hemsworth) che domina la scena, ballando sulle note di una canzone che egli sceglie dal suo smartphone e che estende alle nostre casse e a quelle carcere. Bianco, elegante, è colui che comanda, perlomeno qui dentro.
Jeff (Miles Teller) è la prossima cavia. Stanza bianca, preoccupazione presente ma neanche troppo, Abnesti sembra incredibilmente amichevole e la cavia accetta e quasi ricambia. Si introduce un criterio che rende quest’opera interessante: l’interattività. Niente di nuovo, ma spesso, in questi prodotti, si sceglie la strada dello scontro senza generare un primo incontro. Odio puro tra protagonista e antagonista secondo principi esterni, mancando di quella passione che sboccia in un rapporto magnetico tra i due. Questo perché è davvero difficile crearlo senza scadere in banalità che viaggiano tra i poli dell’amore e odio in maniera continua ed estrema, senza trovare una via di mezzo che faccia vedere oltre queste sfumature. Spiderhead riesce?
Questioni sospese
Vedere Jeff entrare nell’altro lato dello specchio, dove tutto si vede ma al contempo niente dall’esterno può esser visto, è stimolante ai fini della costruzione di un dialogo tra buoni e cattivi e alimenta leggermente l’agognata tensione distopica. Ma il tutto diventa presto quasi ridondante, e per un film tratto da un racconto breve, è forse la pecca maggiore. È interessante discutere delle dinamiche etiche che girano intorno a un concept con così tanto potenziale: questa non è “popolazione generica”, è un gruppo di detenuti, che quindi si ritrova lì per aver fatto qualcosa di sbagliato, e nonostante tutto sembra venir trattato con i guanti dai sorrisoni e dal comfort offerto dal dottor Abnesti.
Allo stesso tempo, l’essere forme più evolute di topi da laboratorio descrive una condizione per cui la struttura che li ospita è la stessa che si infiltra nei sistemi che li rendono umani: le emozioni, le pulsioni, manipolate da un macchinario impiantato nella pelle, il massimo dell’invadenza. Fino a che punto è giusto questo meccanismo? Qual è il confine tra l’essere soggetti socialmente utili e individui sfruttati? Peccato che questa discussione non viene mai effettuata e il potenziale del concept quindi svanisce relativamente presto, rimanendo una superficie che semplicemente blatera in maniera altisonante ed estroversa come “si faccia tutto questo per il bene dell’umanità”.
Le nostre conclusioni su Spiderhead
Molteplici sequenze vengono affossate da questo modus operandi. Grattare la superficie, non espandere il mondo e relegarlo alla stessa ampiezza dell’opera originale da cui trae ispirazione. Per questo mancano d’impatto le ottime prove attoriali di Hemsworth e Teller, le quali potevano divenire un caleidoscopio di emozioni e invece viaggiano dall’estroversione totale alla completa apatia in meno di un secondo, proprio come il rapporto tra i due protagonisti. È un’opera di passaggio, compatta nella sua completa esposizione, sia simbolica che concreta, parlando quindi di regia e fotografia, anch’esse statiche come tutto il comparto tecnico, ben saldo ad una linea continua di buona qualità e mai altalenante.
Spiderhead quindi è un ottimo promemoria riguardo al tema della decisione umana, impossibile da delegare e che pure spesso viene delegata. È un classico viaggio che esalta l’incommensurabile forza dell’istinto e delle dinamiche di potere atte a controllarlo e placarlo. Una visione in più, incentrata sugli aspetti emotivi e sul libero arbitrio, con un interessante punto di vista che vede al centro solo una parte degli umani, quelli etichettati come “coloro che hanno compiuto qualcosa di sbagliato verso la collettività”, non si tratta dei ribelli, non si tratta del popolo indifeso, ma di coloro che devono scontare una pena, fino a che punto? Per altre recensioni, news e approfondimenti continuate a seguire Kaleidoverse e tutti i nostri canali social: Youtube per le videorecensioni del Venerdi alle 15, Instagram, Facebook e Telegram per rimanere in contatto con noi.
Spiderhead racchiude un intero meccanismo distopico all'interno di una carcere dal comfort altissimo fruibile tramite la messa a disposizione del proprio corpo per via di pratiche sperimentali riguardanti farmaci. Già solo questa frase racchiude in sé un modello di narrazione altro che originale, ma dalle potenzialità di innovazione e riflessione immense. La questione della manipolazione emotiva umana è al centro di tutto ciò che tutti noi viviamo costantemente, cosa ci vuole di più per raccontare la contemporaneità oltre a viverla? In compenso di questa esplorazione parziale e superficiale vi sono un comparto tecnico dagli standard alti e invariati per tutta la durata dell'opera, rendendola compatta e fruibile ma purtroppo, di passaggio.